INVITO ALLA MOSTRA DEDICATA A
 

 BENEDETTO TOZZI

(1910 - 1968)


DOMENICA 3 LUGLIO 2016 - ORE 11:30

 

MUSEO D'ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

- 03 LUGLIO - 14 AGOSTO 2016 -
CIVICO MUSEO D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA - PIAZZA SANTA VITTORIA, 2 - ANTICOLI CORRADO
(RM)

 

Ritratto di Marcellina Graziani, detta Nina 1938

 

Dal 3 luglio al 14 agosto 2016
A cura di Manuel Carrera

Civico Museo d’Arte Moderna e Contemporanea
Piazza Santa Vittoria, 2
00022 Anticoli Corrado (Roma)
www.museoanticoli.it

Inaugurazione: 3 luglio 2016 ore 11:30

La mostra intende omaggiare e riscoprire la figura di Benedetto Tozzi (Subiaco 1910 – 1968), alla luce di un rinnovato interesse verso la pittura tra le due guerre e, in particolare, quella relativa alla cosiddetta “Scuola romana”. La mostra al Museo di Anticoli Corrado propone una selezione di opere che documenta l’evoluzione artistica di Benedetto Tozzi, dal tonalismo venato di malinconia dei primi anni Trenta all’espressionismo drammatico instillato dalle esperienze belliche vissute sulla propria pelle, anche attraverso un confronto con alcuni dei protagonisti della pittura del suo tempo.

I moti dell’anima artistica di Benedetto Tozzi svelano un forte legame con la propria terra, dalla quale colse gli aspetti più intimi legati alla liricità del paesaggio impervio solcato dal fiume Aniene e la sua Valle: una connessione profonda con Subiaco e le sue memorie storiche, fonti d'ispirazione ma anche di acuta sofferenza di fronte alle lacerazioni che la guerra inflisse alla sua città.

Lungo la Valle dell’Aniene, una costellazione di piccoli centri diede ospitalità ai tanti artisti italiani e stranieri che dall’Ottocento in poi si dispersero nelle piccole comunità vallive: Cervara, Saracinesco, Cineto, ma soprattutto Anticoli Corrado. Proprio Anticoli Corrado rappresentò per Benedetto Tozzi il cenacolo artistico più congeniale alla sua personalità: un affollato atelier dove operavano personalità di primo piano, quali Fausto Pirandello, Attilio Selva, Pietro Gaudenzi, Emanuele Cavalli, Giuseppe Capogrossi e molti altri, in grado di offrire occasioni di confronto e dibattito sui temi della ricerca espressiva, nonché sul difficile clima politico di quegli anni. Vi erano poi gli amici anticolani: Sergio Selva, Enrico Gaudenzi, i fratelli Toppi (Mario, Carlo e Margherita), con i quali Tozzi instaurò una frequentazione fraterna che durò tutta la vita. Ancora oggi perdura il ricordo dei tanti momenti nei quali la creatività artistica si confondeva con gli aspetti più bohemiendella vita quotidiana in questo singolare cenacolo, nel quale feste e baccanali avevano il sapore di un preludio liberatorio ai tragici eventi della seconda guerra mondiale. Alcune opere di questi pittori saranno esposte in mostra per offrire una panoramica del dialogo che intercorreva tra loro e il pittore sublacense.

Il catalogo della mostra sarà corredato di ricerche inedite e approfondite, frutto della collaborazione che in questa occasione il Museo inaugura con la Scuola di Specializzazione in Beni Storico Artistici dell’Università “Sapienza” di Roma.
 

 


Invito alla mostra - "Omaggio a  Benedetto Tozzi" 3 luglio  2016
Museo d'Arte Moderna Contemporanea
 

 

 


Foto - Museo d'Arte Moderna Contemporanea
Piazza della Vittoria
Anticoli C.

 

BELFAGOR
Rassegna di varia umanità diretta da Luigi Russo
Università di Pisa
Anno I, N. 5 - del 30 settembre 1956

“La critica d'Arte non si è ancora occupata degnamente del pittore di Subiaco, troppo impigliata nei meandri dell'astrattismo e nella prefigurazione di un linguaggio eccessivamente deformante.  Il Tozzi, dal canto suo, non favorisce il suo inserimento nella vita artistica nazionale, per riservatezza di carattere e pudore per la sua arte; non si capisce, però, come le giurie per l'accettazione di opere e per l'assegnazione di premi non notino i quadri del sublacense, umiliando così un artista, senza preoccuparsi dei riflessi deleteri che simile comportamento può apportare allo spirito e all'attività di un uomo.   A nostro avviso, la sua poca fortuna presso i critici e la sua esclusione dalla rotazione dei premi si devono alla mancanza di appariscenza e di esasperazione di errori formali (parliamo di appariscenza e di esasperazione poiché il linguaggio del Tozzi non è davvero ortodosso), all'assenza di intellettualismi,  alla repulsa delle scacchiere geometriche, perché sembrano questi gli aspetti che la critica esalta come portato della nostra sensibilità "moderna".  La coerenza stilistica e l'attaccamento alla natura costano all'artista un vero e proprio ostracismo dall'onesto riconoscimento e dal diritto alla vita.

Il Tozzi sostiene, e non saremo certamente noi a dargli torto, che non c'è bisogno di allungare le teste a pera, di mettere un occhio solo, di aggrappolare in un fianco gli attributi femminili, di scheletrire e rendere goffa o spezzettare la figura umana di ragnificare gli alberi, portare le montagne in primo piano, legnificare il mare. fare triangoli o losanghe, illividire pestare i colori, per essere moderni. 

L'arte quando è veramente arte, è sempre moderna e non ha bisogno di esteriorità alla moda. A questa convinzione egli ha improntato la sua opera. (……..)

Benedetto Tozzi ha l'incredibile potere di accordare, sia pure drammaticamente, le esasperanti e "visibilissime" colorazioni alle visioni fantastiche:  Ne viene fuori una pittura densa, eccitante, allucinante se si vuole, ma che realizza, con disinvoltura e suggestione prepotenza, ogni arditezza di soggetto. Il Tozzi è senza dubbio uno dei maggiori coloristi del nostro tempo: i suoi non sono colori fumosi, bituminosi, sporchi, come troppo spesso se ne vedono; sono terzi e vibranti anche nell'impasto serrato, quasi accesi da un'intima purezza; quella stessa che spiritualizza la luce”.

Guido Colonna 

 


autoritratto 1943

 

CATALOGO MOSTRA


ALLA SCOPERTA DELLE OPERE DI BENEDETTO TOZZI (1910 - 1968)
 

DALLA PITTURA TONALE ALLA VISIONE ESPRESSIONISTA

 

       
Catalogo Mostra 2016
a cura di
Manuel Carrera
Direttore del Civico Museo d'Arte Moderna

 

OPERE ESPOSTE

SCHEDE DESCRITTIVE


"L’ANIENE", 1935 ca.

Esposto alla retrospettiva del 1969 a Subiaco, il dipinto appartiene al periodo tonale della pittura di Tozzi, caratteristico della metà degli anni Trenta.
Il pittore si dimostra aggiornato alle più moderne istanze che muovono la pittura della Capitale a partire dalla fine degli anni Venti; il dipinto ha in sé gli intenti dichiarati nel 1933 all’interno del Manifesto del primordialismo plastico firmato da Cavalli, Capogrossi e Melli: «Pittura è rapporto di colore che suscita l’architettura del dipinto […] dal colore si deve trarre tutto, ma il risultato non è colore: è un fatto vivente».
Tozzi ha sicuramente modo di conoscere Cavalli e Capogrossi, i quali nel 1935 sono entrambi ad Anticoli Corrado; quest'opera dimostra come assimili gli intenti da loro promossi, caratterizzandoli attraverso una pennellata liquida e ricca di materia, che negli anni si rivelerà come una delle sue personali cifre stilistiche.
L’Aniene ricorre spesso nei suoi dipinti, rivelandosi soggetto ideale per la riflessione di Tozzi sulla materia pittorica. Prova ne sono i numerosi dipinti aventi per soggetto l’affluente del Tevere, realizzati in un arco temporale che va dai primi anni Trenta ai Quaranta inoltrati.  
Testo di Vincenzo Stanziola

 


"PONTE DI SANT'ANTONIO", 1935

L’opera in esame si annovera tra le prime formulazioni di un tema ricorrente nella produzione di Benedetto Tozzi: scorci e vedute della città natale, scelti per il forte legame affettivo con la sua terra. A sinistra è rappresentata l’antica cartiera di Subiaco, osservata da piazza sant’Andrea e costeggiata dal fiume Aniene, attraversato a sua volta dal ponte di sant’Antonio, che suggerisce il titolo del dipinto. Nella costruzione dell’opera, l’elemento architettonico e quello naturale sono trattati con estrema sintesi: si notino gli edifici sulla sinistra, descritti da linee rette e forme geometriche, campite da corpose pennellate sui toni dell’ocra e del rosso. Tale geometrizzazione delle forme risente della ricerca avviata da Cézanne e rielaborata dai pittori italiani nel primo Novecento.
La datazione dell’opera risulta particolarmente significativa: nel 1935, infatti, Cavalli si trasferì nel vicino borgo di Anticoli Corrado, ospitando per diversi mesi Capogrossi. I due pittori a quella data sperimentavano una pittura tonale, di probabile ispirazione al colorismo di Tozzi. Gli accordi che si ritrovano nei suoi paesaggi giovanili tradiscono lo sguardo affettivo con cui l’artista ritraeva la sua terra: una serenità che nell’arco di dieci anni, con la terribile esperienza della seconda guerra mondiale, finì per perdere definitivamente.
Testo di Jessica Planamente
 


"SEDIA GIALLA" (1936)

Nel repertorio giovanile di Tozzi rientra la Sedia gialla. Sono gli anni in cui Benedetto frequenta gli artisti del cenacolo di Anticoli Corrado, in un clima di «ritorno alla natura» e ad un'arte realistica, ispirata alla quiete di quei luoghi e paesaggi che si contrappongono alla vita convulsa della città e all'arte di regime. Qui sperimenta la pittura tonale con la vicinanza di Capogrossi e Cavalli, ma il debito più forte, soprattutto per il tema della natura morta, sembra essere quello con Mafai. La Sedia gialla è inserita in un'atmosfera sospesa avvolta da un sentimento di abbandono e solitudine che il critico Colonna definisce «Tristezza di gialli», L'iconografia, suggerita al pittore probabilmente dalle celebri sedie post impressioniste di Van Gogh, simboleggia la malinconia che segue l'assenza, accentuata dalla presenza degli oggetti: un libro chiuso e un lume spento, posti al di sopra di un tessuto la cui luminosità risalta nel contrasto col vivace panno rosa.
Testo di Marta Moi
 


"SEDIA CON FIORI"  (1943)

Nella sedia databile attorno al 1943 si ravvisa il passaggio dalla monotonia degli oggetti alla vitalità dei fiori, uno dei temi prediletti dall'artista che svilupperà e trasformerà nel corso della sua attività. Il confronto tra queste due opere può riassumere il carattere dell'artista per certi versi ambivalente: estroverso da un lato e incline alla malinconia dall'altro. La gamma cromatica aumenta, le campiture si accendono dall'interno e la pennellata si fa veloce e carica di materia.
Testo di Marta Moi
 


"ANTICOLANA" (1938)
L’Anticolana è una prova ad affresco eseguita da Benedetto Tozzi intorno al 1938. L’opera va infatti messa in relazione con il perduto ciclo di affreschi del Castello dei Cavalieri di Rodi, al quale Tozzi lavorò proprio durante quell’anno come aiutante di Pietro Gaudenzi.Nel dipinto l’artista rappresenta una giovane contadina che con aria malinconica e austera si staglia su un fondo monocromo. Nella figura è possibile individuare una citazione della contadina della scena de La Mola di Anticoli, affrescata da Gaudenzi sulla parete Sud della stanza del pane del Castello di Rodi. Poiché nel carteggio di Gaudenzi con Cesare Maria De Vecchi – governatore delle Isole dell’Egeo e committente dell’opera – non si fa riferimento ad interventi specifici di Tozzi nella decorazione delle sale, è difficile pensare che l’Anticolana possa essere uno studio preparatorio per l’affresco rodense. È più probabile che Tozzi, dopo aver seguito da vicino il lavoro di Gaudenzi, abbia deciso nella sua prova ad affresco di ritornare sulla stessa figura di contadina, conservandone l’atteggiamento di religiosa attesa con le braccia conserte e lo sguardo basso.  L’interesse dell’artista sublacense per la tecnica ad affresco trova riscontro nel fervente dibattito sulle tecniche artistiche che animava l’Italia negli anni Trenta. Realizzata in anni caratterizzati da riflessioni sui materiali e i procedimenti esecutivi, l’Anticolana di Tozzi rappresenta uno studio importante per i futuri interventi di restauro che l’artista avrebbe condotto a partire dagli anni Quaranta sugli affreschi di alcune chiese romane e sublacensi.
Testo di Laura Marino

 


"RITRATTO DI NINA GRAZIANI" (1938)

Il quadro ritrae Marcellina Graziani, detta Nina (Affile 1853 – 1943), sorella minore del dottor Filippo (Affile 1842 – 1904), medico condotto e padre di Rodolfo Graziani (Filettino 1882 – Roma 1955). Il ritratto testimonia dell'amicizia tra le famiglie Tozzi e Graziani, probabilmente originata da rapporti di buon vicinato – entrambe le famiglie possedettero fondi limitrofi sugli Altipiani di Arcinazzo – e suggellata dall'amicizia tra il padre del pittore, Nazareno Tozzi, e Filippo Graziani, entrambi allievi al Seminario di Subiaco.Dal punto di vista pittorico è eloquente lo spirito «rappel à l'ordre»: i colori compongono armonie senza dissonanze. Si ravvisa l’influenza di Cavalli e di Capogrossi, filtrata dalla poetica neoquattrocentista passata attraverso la conoscenza degli artisti di «Valori Plastici», e dalla lezione di Pietro Gaudenzi, con il quale l’artista – proprio nel 1938 – collaborava per la realizzazione degli affreschi nel Castello dei Cavalieri a Rodi.La donna è ritratta in posizione seduta, con attributi fisici e psicologici che nobilitano la sua vecchiaia: gli occhi bassi, le rughe del viso e delle mani restituite da un insistito realismo, i capelli quasi del tutto bianchi, raccolti in due masse ordinate e compatte, le labbra tenute chiuse; l'abito scuro (com’era l'uso paesano per la vedovanza), che la fascia come il paludamento di una veste antica; i sobri monili: gli orecchini d’oro, la collana di corallo rosso indossata per il buon augurio. La seggiola su cui Nina siede diventa una sorta di rustico trono a braccioli. La figura regge nella sua mano destra un cestino di terracotta cavo: si tratta di uno scaldino a carbone che rievoca l'inverno, il momento in cui la Graziani ha posato per il ritratto; e l'altra mano è tenuta poco discosta, sul tavolo ricoperto da una ruvida tela tessuta al telaio da lei stessa. Dietro la sedia, due spoglie pareti rosa e un’apertura da cui si scorgono semplici campiture di colori: è la casa di Arcinazzo, in cui Graziani si ritirò nel 1938 e che alternerà da allora alla residenza di Affile. Nina Graziani è ritratta con gli emblemi della sua condizione di donna, testimone dei valori della sua gente; e ancora, allude al valore del lavoro. Tozzi qui ricerca un'assoluta semplicità, priva di intellettualismo: è lo scampolo del duro mondo che il pittore rappresenta intorno a Nina Graziani, «fissa in assorta ieraticità».
Testo di Andrea Iezzi
 


"FIORI  APPASSITI" - 1943

Un vaso di anemoni e narcisi davanti ad una finestra dai vetri scuri è il soggetto di Fiori del 1943: un anno che segna profondamente la vita del pittore, chiamato al fronte in Francia. Nel 1942 Tozzi ha avuto occasione di realizzare due tele di analogo soggetto per il «Premio Verona», ma questa opera rientra in una produzione più intima e personale: colori stridenti, bagliori allucinati, contrasti drammatici danno corpo ad una superficie materica, tormentata. L'artista sembra avvicinarsi a Mario Mafai, con cui aveva stretto rapporti di amicizia durante il soggiorno romano: esponente della Scuola romana e pittore della «non ufficialità», Mafai, tornato a Roma proprio nel 1943, trasferisce nei fiori di questi anni la sua carica espressiva attraverso accensioni cromatiche e pennellate sinuose lontane dal nitore del periodo tonalista.
Testo di Patrizia Giamminuti
 


"FIORI ALLO SPECCHIO" - 1943

Opera realizzata in Francia, che permette un confronto stringente con l'Autoritratto del 1942 (coll. privata), insieme al quale sarebbe stato ritrovato nello studio del pittore dopo la sua morte. Le due opere, accomunate da forti contrasti dovuti all'accostamento di colori complementari e da una superficie materica e incisa, diventano ritratto dell'artista che vi esprime il proprio tormento per gli orrori della guerra.
Testo di Patrizia Giamminuti

 


"PEPPETTA" (1944)

Il dipinto ritrae Giuseppina Scarpellini, figlia minore di Alberto, che nel 1944 collaborò insieme a Tozzi con il movimento partigiano sublacense. Gli Scarpellini occupavano un posto rilevante nella vita culturale e politica di Subiaco ˗ nel dopoguerra Alberto ne fu sindaco, come il padre Attilio prima di lui ˗ ed erano legati da vincoli di parentela a Rosina Ciaffi, moglie del pittore. Giuseppina, nata nel 1928, dimostra almeno 16 anni, un’età che non si accorda con la data 1937, forse apposta dopo la realizzazione del dipinto. Questa va piuttosto collocata alla metà degli anni Quaranta, in prossimità del ritratto della sorella Giovanna (v. scheda successiva), cui il dipinto si apparenta per l’impostazione malinconica del soggetto e alcuni particolari compositivi come le lunghe braccia; se ne discosta invece per la stesura pittorica e la gamma cromatica: mentre Giovanna è perfettamente coerente con la produzione di quegli anni, Peppetta, esposto per la prima volta nel centenario della nascita del pittore, avrebbe certo fatto da protagonista alla mostra «Benedetto Tozzi e la Scuola romana», pensata dalla Soprintendenza dell’Abruzzo nel 1989 e rimasta sulla carta. È manifesta l’eco della pittura tonale di Cavalli, Cagli e Capogrossi, che Tozzi recepì durante le frequentazioni anticolane e il breve trasferimento a Roma. Si noti in tal senso la gamma cromatica tenue (giocata sui rosa, il beige, un bianco pannoso e l’ocra) che esercita quasi una forza maieutica nei confronti della figurazione ed esautora il disegno del suo ruolo primario.
Testo di Vittoria Brunetti
 


"RITRATTO DI GIOVANNA SCARPELLINI", 1944 ca.

Il dipinto rappresenta il ritratto a figura intera della giovane Giovanna Scarpellini, una delle due figlie del generale Alberto Scarpellini, personaggio di rilievo della città di Subiaco con cui il pittore era legato da una profonda amicizia (cfr. scheda precedente). L’opera, tanto nella resa dei volumi quanto nel colore, rivela la reminescenza della poetica del Novecento avanguardista, unita alla riscoperta della grande tradizione figurativa del passato. Tuttavia, la ricerca coloristica – soprattutto nella resa della camicia e dello sfondo – è con ogni evidenza figlia dell’interesse di Tozzi per la pittura fauve, filtrata dall’interpretazione che ne avevano fatto i pittori italiani verso la metà del Novecento. Sono infatti questi gli anni in cui, soprattutto nell’uso del colore, l’artista sublacense subisce l’influenza delle sperimentazioni cromatiche della pittura drammatica di Mafai e Scipione: nella fase più buia della guerra, che toccherà profondamente l’animo e la psiche dell’artista, Tozzi sembra inasprire la sua sensibilità di pittore e la forma stessa delle sue opere. L’atteggiamento pensoso di Giovanna Scarpellini, l’assenza di riferimenti all’ambiente circostante, piuttosto vuoto e dismesso, caratterizzato da una certa atmosfera di sospeso, stupore e mistero sono tipici dei ritratti degli anni Quaranta, in cui la figurazione diventa pretesto per indagare la sua stessa tormentata interiorità.
Testo di Ianira Forte
 

"RITRATTO DI SERGIO" - 1947

In questo dipinto del 1947 è rappresentato il secondogenito dell’artista, Sergio, all’età di sette anni. Nell’impostazione della figura, posta di tre quarti, con le mani sommessamente raccolte in grembo, lo sguardo malinconico e assorto che dialoga silenziosamente con lo spettatore, ritroviamo ancora alcuni motivi della poetica di «Novecento», di cui Tozzi in parte subisce l’influenza soprattutto nei suoi ritratti, pur rinnegandone gli aspetti più magniloquenti e celebrativi. Il bambino si trova all’interno dello studio dell’artista, seduto sul bordo di un tavolo dove si vedono distribuiti alcuni oggetti. È una dimensione domestica quella rappresentata in primo piano, ma l’ambiente risulta quasi indefinito: nei ritratti di Tozzi i personaggi abitano uno spazio che è appena accennato, di cui si intravedono solo alcuni dettagli che contribuiscono a determinare una sottile atmosfera di mistero. Ma a tradire una diversa finalità dell’opera è l’uso del colore, qui steso a larghe campiture, quasi alla maniera dei fauves, che denota l’interesse sempre vivo verso un’indagine che è prima di tutto coloristica. L’artista sa approfittare della conformazione dello studio con lucernario per dar vita ad un suggestivo contrasto luce-ombra tra il primo piano e lo sfondo, che si carica di valenze simboliche: divenendo meno comprensibile, costellato di macchie di colore più cupo, esso assurge a metafora del suo stato d’animo, ribollente nel profondo di inquietudini mai sopite. Il volto di Sergio diviene dunque specchio dell’interiorità dell’artista stesso, ed il colore si fa così più simile alla tavolozza tormentata di Mafai e Scipione, per quell’evoluzione che si ha nell’arte del Tozzi nell’immediato dopoguerra, quando la sua psiche risulterà ferita e sconvolta dagli orrori del conflitto e dall’aver ritrovato Subiaco distrutta con il suo studio di Palazzo Romano saccheggiato.
Testo di Serena Pettinato
 

"LE MACERIE" - 1948

L’opera appartiene a un ciclo di dieci dipinti che documentano Subiaco dopo i bombardamenti che la devastarono tra il maggio e il giugno del 1944. È rappresentata la zona intorno a via Fabio Filzi, a pochi passi dalla cartiera. La presenza di un cartellino e di alcuni numeri identificativi sul retro fanno supporre sia stata esposta almeno due volte. 
Il dipinto sembra il risultato di una dolorosa presa di coscienza del pittore, espressa attraverso una pittura materica fatta di toni bassi e colori terragni. I tocchi di bianco guidano l’occhio lungo i muri del palazzo sventrato sulla destra, il cui scheletro imponente può aver esercitato, come emerge da altri quadri del ciclo, una sorta di fascinazione sul pittore. I colori e i toni sono tanto distanti dalle fantasie coloristiche dei paesaggi sublacensi degli anni Trenta quanto dalle ultime opere della serie, dove il dramma è ormai elaborato e i colori sono più chiari e diluiti. Il tema accomuna la serie alle celebri Demolizioni di Mafai che, pur costituendo un amaro memento degli sventramenti fascisti, avevano ragioni eminentemente stilistiche: enucleare forme e volumi attraverso il colore. Più cupa e personale è l’interpretazione di Tozzi, assai vicina cromaticamente alle «deflagrazioni tonali» delle Demolizioni di Afro (1939) e sentimentalmente alle Rovine di guerra di Turcato (1948-52), che risolve invece in una composizione astratta il ricordo doloroso della sua visita a Varsavia (1948).
Testo di Vittoria Brunetti
 

"DONNA IMPAZZITA  SOTTO IL BOMBARDAMENTO" - (1949)

La notte si illumina, una donna fugge smarrita tra i bagliori rossi del bombardamento, cercando di proteggersi con istintivi gesti delle braccia. Il suo viso, probabilmente nelle fattezze di Rosina, moglie di Tozzi, è costruito con poche rapide pennellate e si staglia contro uno sfondo scuro. Colori intensi e segni corposi tracciano la figura che si disgrega nella forma.
L’inedito espressionismo del dipinto segna un profondo mutamento nel percorso pittorico dell’artista nell’immediato dopoguerra. Il vuoto interiore provocato dagli eventi bellici e aggravato dal dolore per la perdita di alcuni familiari è anche evidente in altre opere dello stesso periodo, quali Macerie e Subiaco distrutta,
dipinti che raccontano la devastazione e la rovina della sua terra natale.
L’opera trova inoltre contatti con la serie Fantasie di Mario Mafai, esposta a Roma nel 1944 nella mostra Arte contro la barbarie. Si tratta di quadri di piccolo formato con figure contorte di forte carica espressionistica che denunciano gli orrori e i soprusi della guerra: le rapide pennellate corpose e le tinte scure accomunano le opere dei due artisti.
Tuttavia, il lavoro di Tozzi rivela un’adesione diversa, più intima e vissuta, lontana dai toni grotteschi e satirici delle invenzioni di Mafai.
Il dipinto è presentato alla prima personale di Tozzi del 1953 e poi riesposto in altre occasioni. Viene notato per la sua forza espressiva di grande impatto psicologico e l’efficacia con la quale riesce a comunicare il dolore e il dramma dell’umanità ferita. Ottiene l’attenzione della critica contemporanea che lo descrive come «terrorizzante per la potenza realistica e per lo stato d'animo, imprigionato in poche pennellate di fuoco […]. L'irruenza cromatica non ha limiti e il potenziale dinamico dell'immagine agisce prepotentemente sul nostro sistema nervoso».
Testo di Sofia Ekman

 


"RAGAZZA CON CAGNOLINO DI STOFFA" - (1949)

Protagonista di questo ritratto è una giovane, Maria Teresa, che all'epoca del dipinto lavorava in casa Tozzi come domestica; la ragazza è seduta e tiene tra le mani un piccolo pupazzo rosso di stoffa. Un giorno il pittore, colto da un’ispirazione improvvisa, le chiese di posare; nacque, nel giro di mezzora, questo quadro, che nella posa e nell'espressione della ragazza ha il carattere di un’istantanea. 
La figura prende vita nel colore, nei tocchi rapidi e pastosi che definiscono la chioma e il viso, ma anche nelle zone più ampie dell’abito e dello sfondo. Quest’ultimo, in particolare, non costituisce uno spazio reale e neppure un fondale neutro che metta in risalto la figura: è parte integrante, invece, dello stesso trionfo di colori e di luci. Se l’incarnato è reso con un certo naturalismo, le pennellate di viola e verde che definiscono le ombre del volto, insieme al bruno violaceo tinto di arancione, bianco e verde dei capelli, ricordano piuttosto quella che Colonna definì «cromia fauvistica» e che più in generale mostra, in quest’opera di carattere estemporaneo, una ricerca sperimentale e personale di Tozzi in chiave espressionista.

Testo di Valentina Mariani

 


"L'ANGELO AL SEPOLCRO2 - (1953)

Realizzata durante gli anni di profonda riflessione sulle tematiche religiose e di intima vicinanza con Don Igino Roscetti, parroco della basilica di Sant’Andrea a Subiaco, la tela esamina con efficacia il motivo della preghiera. La figura angelica, cui prestò le fattezze la consorte, siede sola, con le mani giunte di fronte al petto, alla destra di un sepolcro appena definito. Le rapide pennellate gialle e aranciate che gettano una fioca ombra sul volto e sulle ali dell’angelo sembrano costituire l’unica astratta fonte di luce dello spazio, completamente immerso nel blu della notte.
Abbandonato qualsiasi intento di definizione disegnativa, Tozzi affida la costruzione della scena al colore denso, corposo ed espressivo: i volumi delle braccia e delle mani giunte, punto nevralgico della rappresentazione, prendono corpo grazie alla giustapposizione di pennellate vigorose, che mostrano l’intensità dell’esecuzione.
Testo di Gloria Antoni

 


"GIOCATTOLI" - (1954)

"Giocattoli" è un olio su tela del 1954, realizzato da Benedetto Tozzi per la sua penultima figlia, Gabriella. Su uno sfondo allestito con drappi colorati, sono posti i protagonisti della scena, quattro giochi tutti legati alla sfera sensoriale dell'udito: una bambola con tromba, un telefono rosso e due pupazzi a carica, che reggono piatti musicali. Il 1954 è un anno prolifico per Tozzi, impegnato in varie campagne di restauro, ma è pure un periodo di isolamento a Subiaco, dopo il successo della mostra dell'anno precedente. Giocattoli si colloca in questa pausa di distensione: i colori chiari e luminosi sono stesi con una pennellata non più espressiva e materica, ma diluita, che recupera certe istanze della fase tonalista. La tela rappresenta un momento di riavvicinamento del pittore alla sfera familiare e intima e costituisce un unicum nella sua produzione. Tozzi si rivolge ad una tradizione iconografica di successo nei decenni tra le due guerre, non solo nell'ambito della Scuola Romana con artisti come Guglielmo Janni e Mario Mafai, nel quale parti della bambola assumono il valore scenico del manichino di atelier, ma anche nel contesto europeo, con opere di Picasso e Otto Dix. Ancor più esplicito è il riferimento agli oggetti inanimati e sospesi del Realismo magico: benché sia lontano da certo plasticismo e nitidezza di profili, Tozzi fa suo l'assunto del teorico Massimo Bontempelli per il quale la stanza dei giochi è occasione quotidiana di fuga dal reale in una dimensione magica, proprio come avviene nei quadri di soggetto analogo di Felice Casorati, Cagnaccio di San Pietro e Riccardo Francalancia.

Testo di Patrizia Giamminuti

 


"PAESAGGIO CON SAN LORENZO DI NOTTE", 1963

L’opera rappresenta un paesaggio montuoso caratterizzato da toni cupi, che lo indicano come notturno.
L’identificazione, alle pendici del monte rappresentato a sinistra, della chiesetta di San Lorenzo Martire consente di riconoscere nella veduta la cosiddetta località Pianello, dove si costituì il primo nucleo abitato della città di Subiaco, ripresa dallo studio del pittore.
Alla data di esecuzione dell’opera il soggetto era già stato affrontato dall’artista: nel 1949, ad esempio, ne realizzò una versione caratterizzata da cromie più tenui e luminose. Tipica dell’ultima produzione di Tozzi è qui la scelta di tinte scure, ravvivate dalla presenza di decise pennellate di colore acceso. Anche in questo paesaggio, al profilo dei monti fa da sfondo un cielo azzurro intenso e, verso valle, larghe pennellate arancioni, gialle, verdi e rosa animano il dipinto. Come colate laviche, queste striature segnano i passaggi di piano, schiarendosi nell’avvicinarsi all’osservatore. I forti contrasti cromatici descritti hanno ormai stabilmente sostituito il tonalismo che caratterizzava la produzione giovanile di Tozzi: nella forza del colore si ravvisa una eco della pittura sanguigna di Scipione, a rivelare l’imperituro legame con la Scuola Romana del pittore sublacense. Dopo il dramma della guerra e il travagliato rientro a Subiaco l’artista caricò di forza e violenza quegli stessi paesaggi che un tempo gli assicuravano serenità. Il colore è dunque impiegato in senso espressionista, trasfigurando la realtà osservata e generando visioni dense di contrasti irreali.
Testo di Jessica Planamente

 

 

"FIORI IN AUTUNNO" - (1966)

Il quadro, intitolato da un’iscrizione autografa sul retro Fiori in autunno, si inserisce in un nutrito gruppo di nature morte dipinte da Tozzi tra la metà degli anni Cinquanta e il 1967. Con il procedere degli anni, la drammaticità già denunciata dai fiori del 1943 diventa esplicita in una scelta cromatica che rinuncia alle sfumature e gioca su netti contrasti tra colori puri. Il drappo rosso è appena distinguibile dallo sfondo, della stessa intensa tonalità, che contribuisce ad annullare la percezione di uno spazio reale e contrasta con il verde acceso dei gambi e delle foglie. Contrasto ribadito dal soggetto: il verde vivido dei gambi stride con il capo chino di alcuni fiori, ormai prossimi ad appassire, e ricorda i fiori secchi di Mafai, che, seppure morti, mantengono tutta la loro vitalità nel colore. In modo analogo, i colori brillanti di mazzi di fiori di campo si stagliano contro sfondi viola o verdi di altre composizioni coeve, nelle quali si riscontra un elemento ricorrente: il vaso di cristallo, che con la sua trasparenza lascia intravedere i gambi e genera riflessi e giochi di luce. Il motivo del drappo rosso si ripete pressoché identico in Natura morta del 1967, dove, davanti al vaso di anemoni, è collocato un piatto bianco con della frutta. L’intensità di questi sfondi, quasi infuocati, oltre a Mafai, ricorda i fiori di Arturo Tosi, del quale il pittore conservava un catalogo. Le pennellate vibranti, che rendono i fiori pura energia, suggeriscono come Tozzi, in questa fase matura, esprima attraverso il colore la propria inquietudine, che si estrinseca nel rosso rovente, presente in molte nature morte già a partire dal 1956, ma predominante in quelle degli ultimi anni.
Testo di Valentina Mariani
 


"CROCIFISSIONE" - (1967)

Firmato e datato, il dipinto è afferente all’ultimo periodo di attività di Benedetto Tozzi. La tela mostra con evidenza il lato drammatico del rapporto con il sacro dell’artista, qui enfatizzato anche dalla consapevolezza della malattia che l’anno seguente lo porterà alla morte. Nello specifico, confrontando questo dipinto con i soggetti sacri realizzati durante il decennio precedente, appare evidente come la sua pittura diventi intrinsecamente drammatica.
Negli anni Sessanta le opere di Tozzi si caratterizzano per una nuova dialettica tra segno e colore: se in precedenza il «segno» era del tutto assente in ragione di un trionfo della materia pittorica, in questa tela esso ottiene un’inedita rilevanza, soprattutto nella silhouette del Cristo. È un segno morbido, che mostrandosi nella sua essenziale definizione, richiama esperienze come quella di Fausto Pirandello nelle sue crocifissioni. Al contrario del pittore romano però, per il quale è il colore a piegarsi alle ragioni del segno, Tozzi dimostra ancora come la componente coloristico/materica sia per lui l'aspetto prioritario. 
L’enfasi emotiva di Tozzi lascia la sua traccia non solo nella serie di graffi nella parte destra del dipinto, quasi a voler cancellare l’opera. Un’operazione di censura, difatti, questa tela l’ha già vissuta proprio nel momento della realizzazione, in quanto al di sotto di essa appare evidente la presenza di una prima composizione, probabilmente un paesaggio, sui toni del verde.
Testo di Vincenzo Stanziola
 

"PIAZZETTA DI PIETRA SPRECATA DI VENERDÌ SANTO" (1967)

L’opera rappresenta uno dei più suggestivi e caratteristici scorci di Subiaco, meta obbligata fin dal XIX secolo di intere generazioni di pittori paesaggisti, italiani e stranieri. Questa del 1967 è la versione più tarda delle vedute tozziane di Pietra Sprecata, il cui toponimo – «Prestecata» nella forma dialettale – ricorda l’antica destinazione del luogo come deposito dei materiali di costruzione per la Rocca Abbaziale. La piazzetta è immersa nella sospesa e vibrante penombra serale del Venerdì Santo, rischiarata dal focone e dai lampioncini delle finestre che ogni rione predispone per illuminare il passaggio della statua del Cristo morto. Rinunciando alla presentazione narrativa della cerimonia, come appare ne La processione del Venerdì Santo dipinta tredici anni prima, Tozzi si affida unicamente alle potenzialità espressive ed evocative del colore, saturo, che si accende di improvvisi bagliori fino a trasfigurarsi, lungo i profili degli elementi architettonici, in pennellate di pura luce. Una luce ormai lontana dal tonalismo delle opere giovanili ma certamente debitrice delle visioni crepuscolari di Roma dell’amico Scipione.
L’elemento scenograficamente dominante è costituito dall’edicola sacra. Danneggiata dai bombardamenti, fu ricostruita da Tozzi nell’aprile del 1954 contestualmente al ripristino in affresco dell’icona mariana al suo interno, in sostituzione della copia a olio di un originale presunto di Guido Reni, che fu donato nel 1790 dal sublacense Don Pietro Caroni alla confraternita dei bergamaschi di Roma. In una lettera al sindaco Alberto Scarpellini del 18 marzo 1954, Tozzi, animato da un profondo senso civico, specificava di accettare l’incarico «a condizione di occuparmene io solo e personalmente»: numerosi gli studi architettonici per il tabernacolo e per la cornice dell’affresco che si conservano nell’archivio di famiglia.

Testo di Gianluca Petrone
 


"L'INCHINATA" (1968)

L’inchinata può considerarsi il testamento spirituale di Benedetto Tozzi in quanto sintesi, felicemente riuscita sebbene rimasta incompiuta, della sua esperienza di vita e di pittore. Fu probabilmente esposta per la prima volta in occasione della retrospettiva del 1969, dove confluì un numero di opere maggiore rispetto a quello indicato nel catalogo: il dipinto doveva figurare significativamente a conclusione del percorso espositivo.
Il rito dell’inchinata è rappresentato nel momento culminante, quando l’icona sacra del Salvatore, portata in processione dalla cattedrale di Sant’Andrea, sta per incontrare l’immagine dell’Assunta nella piazza di Santa Maria della Valle e il popolo, con sincera devozione, implora misericordia per l’umanità. Dall’alto, la rocca dei Borgia impone il suo caratteristico profilo al paesaggio, mentre, in basso a destra, un tronco d’albero secco sembra immerso in una variopinta laguna di colori, che fa da controcanto a quella altrettanto palpitante che inonda il cielo: «si infuoca il linguaggio, il contenuto resta umano». L’elemento arboreo costituiva in origine l’abbozzo di una diversa composizione – forse una veduta delle sponde dell’Aniene – che fu poi adattato, girando la tela in senso orizzontale, al nuovo progetto esecutivo, per suggerire l’idea di una compenetrazione tra il naturale, l’umano e il divino. Su questo spazio si muovono, verso direzioni opposte, alcune figure di supplici vestiti di manti rossi, appena abbozzate con rapidi colpi di pennello.
La dominante rossa, che avvolge l’intero paesaggio di un’atmosfera surreale, e la definizione antinaturalistica delle figure sono il risultato di una ricerca espressiva personale e autonoma, che volge verso una sperimentazione astrattizzante del colore. Solo l’incompiutezza della tela e la prematura morte del pittore impediscono di valutarla come una scelta estetica consapevole, quasi una maturazione poetica dei presupposti della sua arte, riassumibili nel binomio forma/colore.
Testo di Gianluca Petrone

 

 

 

DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA
INAUGURAZIONE MOSTRA
MUSEO ANTICOLI C.
E GIARDINO CASA GAUDENZI
DOMENICA, 3 LUGLIO 2016 ORE 11:30

 


B. Tozzi 1956
 

 


 

 

 

 

 

 


 B. Tozzi
con il figlio Leonardo
1958

 

NOTIZIE DALLA STAMPA


Articolo da "Il Messaggero"
domenica 3 luglio 2016

 

 

 


Fontana di Arturo Martini
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